Panoramica macroeconomica: libero commercio mondiale addio?
«This is the end», cantavano i Doors nella colonna sonora del tenebroso film Apoca-lypse Now. Non vogliamo certo parlare di fine quando guardiamo al commercio mondiale. Tuttavia, la circolazione globa-le delle merci è sottoposta a quello che probabilmente è il più grande stress test in tempi di pace da quasi un secolo a que-sta parte.

Lo spettro dei dazi incute paura
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Gentili investitrici e investitori,
La guerra tariffaria infuria in tutta la sua forza almeno sin dal «giorno della liberazione». Il governo USA sta cercando di salvarsi economicamente e finanziariamente alzando massicci muri tariffari, soprattutto contro la Cina. Questa reagisce con dazi di ritorsione. Nel frattempo, il resto del mondo sta cercando in qualche modo di far fronte al tira e molla dell’inquilino dello Studio ovale. Sebbene Donald Trump abbia sospeso per 90 giorni i dazi, talvolta esorbitanti e appena entrati in vigore, il dazio di base del 10% rimane in vigore. Per una volta si può perdonare all’Europa il suo sconcerto. Intrappolata com’è tra l’erraticità di Trump e la dipendenza economica e militare dagli Stati Uniti, commettere un errore le costerebbe caro. Sta di fatto che la guerra dei dazi, a prescindere da come andrà avanti, non produce vincitori, né per l’economia americana né per l’economia mondiale e tanto meno per i consumatori.
È impossibile prevedere quanto durerà questo incubo. È chiaro, tuttavia, che lo spettro dei dazi sta già causando preoccupazione nel macrocontesto più ampio.
Nelle pagine che seguono non potremo scacciare questa paura, ma possiamo alleviarla un po’ contestualizzando la situazione. Con questa premessa, vi auguriamo una lettura rassicurante.
La guerra dei dazi produce solo perden-ti
Nonostante la sospensione temporanea, i dazi punitivi statunitensi frenano la crescita economica. Colpiscono sia la Svizzera che il resto d’Europa. Ma stanno danneggiando anche l’economia statunitense.
I dazi statunitensi, ora sospesi ma ancora incombenti, non sono reciproci. È vero che Donald Trump mette il dito su un punto dolente e spesso ignorato quando si lamenta dei dazi di importazione, talvolta elevati, sulle esportazioni statunitensi. Basti pensare a quelli sulle importazioni di auto, che per molto tempo sono stati quattro volte più alti.
I muri tariffari annunciati non hanno nulla a che fare con la giustizia compensativa, ma piuttosto con il proverbiale «darsi la zappa sui piedi». Perché, a parte amici e nemici, i dazi danneggiano anche gli stessi Stati Uniti, tanto più che quelli sulle importazioni hanno lo stesso effetto di un aumento delle imposte, a danno soprattutto dei redditi bassi. Stando alle stime dell’Università di Yale, le famiglie con un reddito annuo fino a 43 000 dollari perdono il 5,5% del loro potere d’acquisto. Questo significa che il principale sostegno alla crescita dell’economia statunitense non rischia di crollare, ma può erodersi. È quindi da escludere per l’anno in corso una crescita come quella del 2024 (2,8%). Attualmente prevediamo una crescita di circa l’1,4%.
Ma gioire per l’effetto boomerang dei dazi di Trump è fuori luogo. Innanzitutto, non aiuta nessuno se l’economia globale per eccellenza danneggia se stessa e, inoltre, i dazi creano problemi anche alle altre economie. Questo vale in particolare per l’eurozona, già dissestata di per sé. Oltre ai dazi di base, dopo il periodo di grazia di 90 giorni vi sarà la minaccia di aliquote speciali che per molte imprese superano la soglia del dolore. Dazi statunitensi del 25% sulle importazioni di automobili, acciaio e alluminio, ad esempio, possono rappresentare una minaccia esistenziale reale. Per l’industria automobilistica della Germania, già in crisi e peso massimo dell’euro, questo è un ulteriore offuscamento delle prospettive. L’andamento recessivo in Germania proseguirà quindi probabilmente anche nel terzo anno consecutivo, mentre la timida ripresa dell’area monetaria nel suo complesso perde vigore. Per il 2025 prevediamo una crescita dello 0,5% circa.
La Svizzera dovrebbe superare questa previsione. Secondo i nostri calcoli, nell’anno in corso la crescita del valore aggiunto svizzero dovrebbe accelerare dallo 0,9% all’1,2%. Ma questo non è un motivo per esultare. Prevalgono infatti i rischi negativi, soprattutto se la deroga per i prodotti farmaceutici non durerà a lungo.
Politica monetaria contorta
I dazi statunitensi stanno rimescolando le carte per le banche centrali. La poli-tica monetaria è tra l’incudine e il martello. Deve trovare un equilibrio tra le preoccupazioni congiunturali e i crescenti rischi inflazionistici.
Nessuno vuole essere nei panni dei banchieri centrali. Da un lato, l’economia desidera bassi tassi d’interesse per attenuare gli effetti frenanti del regime tariffario statunitense, dall’altro lato, i dazi e i controdazi aumentano la pressione inflazionistica, il che depone a sfavore di un allentamento.
La Banca centrale europea (BCE) dovrà affrontare questa complessa situazione. Dato che l’inflazione (2,2%) nell’eurozona si è recentemente avvicinata di molto all’obiettivo della BCE del 2%, è probabile che Francoforte si schieri per il momento dalla parte degli interessi economici in questo conflitto di obiettivi. Riteniamo che le autorità monetarie europee taglieranno quindi i tassi di riferimento di altri 25 punti base. A questo allentamento nel corso dell’anno seguirà un’ulteriore riduzione nella stessa misura. Con questi provvedimenti la BCE punta, tra l’altro, a svalutare l’euro al fine di mantenere i prodotti rincarati dai dazi doganali il più possibile competitivi sul mercato americano.
La banca centrale americana (Fed) può prendersi più tempo. La prossima decisione in materia di politica monetaria è prevista per il 7 maggio. Considerando l’inflazione ancora nettamente eccessiva (a febbraio si attestava al 2,8%) e le pressioni inflazionistiche, che probabilmente si scateneranno presto a causa dei dazi sulle importazioni, è probabile che gli USA si attengano per il momento alla loro politica di «wait and see» e non ricorreranno alla leva dei tassi d’interesse. Un allentamento non farebbe che alimentare ancora di più i rischi inflazionistici. Presumiamo che questa reticenza si protrarrà ancora a lungo, vista l’incertezza del contesto. Nel complesso, per il 2025 prevediamo un’ulteriore riduzione dei tassi di 25 punti base.
Infine, il 19 giugno la Banca nazionale svizzera (BNS) effettuerà la prossima valutazione di politica monetaria, ma il suo margine di manovra sarà limitato. Se non vuole spingersi nuovamente in territorio negativo, ha a disposizione solo un’ulteriore fase di allentamento di 25 punti base. Ci aspettiamo che la BNS si avvalga di questa opzione per fornire un sostegno valutario all’importante settore delle esportazioni. Tanto più che questo approccio è giustificato dall’inflazione interna molto bassa. Considerati i noti effetti collaterali indesiderati, continuiamo a ritenere improbabile il ritorno a un regime di tassi negativi.
Non «America First», ma «Safety First»
Il terremoto sui mercati azionari sta spingendo gli investitori verso investimen-ti sicuri e dunque i tassi di interesse del mercato dei capitali sono diminuiti nettamente. Finché l’incertezza persisterà, i rendimenti rimarranno sotto pressione.
Questa semplice affermazione riassume il temporaneo crollo dei rendimenti sul mercato dei capitali americano: effetto desiderato, ma per le ragioni sbagliate. I rendimenti dei Treasury statunitensi sono scesi di circa 40 punti base nel giro di pochi giorni. Sebbene questo sia senz’altro in linea con le intenzioni di Donald Trump, in quanto i tassi più bassi del mercato dei capitali garantiscono condizioni di rifinanziamento più favorevoli, il motivo di questo calo deve far riflettere. La causa, infatti, non risiedeva nella forza dell’economia statunitense, bensì nelle forti preoccupazioni per l’impatto negativo dei dazi sui mercati azionari. Gli investitori, in modalità «risk-off» hanno infatti cercato rifugio in investimenti sicuri.
Questa avversione è desinata a perdurare per il momento. Per questo motivo, anche il recente aumento del rendimento dei titoli di Stato statunitensi va considerato con cautela. Finché Donald Trump continuerà a causare una grande incertezza con la sua politica erratica, la pressione sul rendimento dei Treasury rimarrà tendenzialmente elevata.
Questa pressione prevale anche in Svizzera. Di conseguenza, anche i rendimenti delle obbligazioni della Confederazione a 10 anni sono nettamente diminuiti dopo l’annuncio dei nuovi dazi. Ciò è dovuto non solo al crollo della propensione al rischio sui mercati azionari svizzeri, ma anche al fatto che in tempi di crisi le obbligazioni in franchi svizzeri sono considerate un porto sicuro per gli investitori. Almeno nei prossimi mesi questa situazione non cambierà, viste le incertezze in corso sui dazi e le preoccupazioni sulla politica europea di difesa e sul debito. I tassi del mercato dei capitali rimangono quindi sotto pressione anche in Svizzera.
Per quanto riguarda le obbligazioni europee, inoltre, i dazi statunitensi riportano nuovamente al centro dell’attenzione i diversi rischi di credito associati alle politiche europee. Dopo l’annuncio di Trump, i tassi d’interesse di una solida debitrice come la Germania sono scesi del doppio rispetto a quelli della Francia, fortemente indebitata e in costante deficit. Per l’Italia, fortemente sovraindebitata e cronicamente debole in termini di crescita, i premi di rischio sono addirittura aumentati.
Una volta passata la fase iniziale di assorbimento dello shock dei dazi, gli spread potrebbero aumentare ulteriormente. Il grano viene separato ancora di più dalla pula, il che si rifletterà in un crescente differenziale dei premi al rischio.
Abbandono del biglietto verde
Gli investitori sono diventati diffidenti rispetto al dollaro USA, il che ne ali-menta la pressione svalutativa. Per contro, il franco svizzero sta guadagnando il favore degli investitori e ciò si riflette anche nel suo rafforzamento rispetto all’euro.
Trump ha designato il 2 aprile come giorno della liberazione. Per quanto riguarda il mercato dei cambi, tuttavia, il termine più appropriato sembra essere «giorno dell’abbandono». Con l’annuncio dei dazi doganali, il presidente degli Stati Uniti ha infatti accelerato la tendenza all’indebolimento del dollaro USA. Misurato rispetto all’indice del dollaro ponderato per il commercio, il biglietto verde ha perso il 4,3% dall’inizio dell’anno. Le incertezze circa l’entità dell’impatto negativo dei dazi sull’economia statunitense spingono a evitare sempre più spesso gli investimenti in dollari e sollevano dubbi di fondo sulla reale idoneità del biglietto verde di essere ancora una tradizionale valuta di crisi.
Queste preoccupazioni non svaniranno presto e lo stesso Trump non sta facendo alcuno sforzo per dissiparle. Ci aspettiamo quindi che la pressione al ribasso sul dollaro USA continui ancora per qualche tempo.
Il franco svizzero, invece, è fuori discussione. La valuta nazionale rimane l’investimento rifugio per eccellenza, soprattutto in Europa. L’indebolimento iniziato a dicembre rispetto all’euro è stato scontato l’8 aprile. Probabilmente è solo grazie agli interventi della Banca nazionale svizzera (BNS) che il franco svizzero non si è ancora apprezzato maggiormente. È vero che in seguito all’annuncio dei dazi la moneta unica ha guadagnato terreno su base commerciale, ma questo movimento al rialzo è stato inferiore a quello del franco, favorendo il recentissimo apprezzamento della moneta nazionale rispetto all’euro.
La BNS sta contrastando al meglio questa situazione intervenendo sul mercato dei cambi. In fin dei conti, un aumento del valore esterno del franco svizzero rappresenterebbe un ulteriore handicap per l’industria dell’export, già colpita dai dazi. Tuttavia, sebbene la BNS disponga teoricamente di risorse illimitate, il suo margine di manovra è di fatto contenuto per motivi di rischio e di bilancio. Per questo ci attendiamo che nei prossimi mesi il franco tenderà a rafforzarsi sia nei confronti dell’euro che del dollaro.
La sterlina britannica tende a non essere né forte né particolarmente debole. Insieme a Singapore, il Regno Unito è una di quelle poche eccezioni per le quali Trump non ha mai previsto dazi superiori al 10%. Se la sterlina si muove lateralmente e il franco sale allo stesso tempo, il cambio GBP/CHF rimarrà quindi orientato al ribasso in una prima fase.

Valentino Guggia Valentino Guggia
Valentino Guggia è economista presso la Banca Migros. Si occupa dell'analisi degli sviluppi macroeconomici e degli eventi sui mercati finanziari.
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Santosh Brivio Santosh Brivio
Santosh Brivio è Senior Economist della Banca Migros. Si occupa dell'analisi degli sviluppi macro e ciclici e dei mercati finanziari.
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